Di recente, in tanti hanno scoperto che insegnare è diventato un mestiere estremamente rischioso, grazie all’opera di molte “famiglie” e “studenti”. Esistono sempre infinite chiavi interpretative della realtà, ma in questo caso non occorre molto per comprendere che questi sono i risultati di più di vent’anni di accanimento distruttivo nei confronti della scuola pubblica; in nome della “modernità” si privilegiano le “competenze” in luogo delle conoscenze, proprio in una fase di disconoscimento mondiale delle stesse.
Da decenni assistiamo alla svalutazione dello studio come “lavoro”, in termini leopardiani e gramsciani, e all’esaltazione della “tecnologia” (leggi classi-tablet), secondo un modello di schiavitù digitale della mente; se un tempo la scuola aveva il compito di formare i giovani, facendoli crescere moralmente e culturalmente, oggi si pone al traino di una società che vede negli stessi una massa amorfa da indottrinare, tramite tecnicismi e logiche del mercato e del profitto, ecco quindi la farsa di esami finali con il 99% di promozioni alla maturità, esami di riparazione sostituiti con la commedia dei cosiddetti “crediti e debiti”, gravi insufficienze colmate d’incanto, valutazioni dei docenti annullate dai grotteschi quiz Invalsi, per non parlare dell’ “assenza forzata” degli studenti per centinaia di ore, spese nel demenziale “apprendistato” gratuito dell’alternanza. È per questo che alla scuola si chiede che li prepari al mondo del lavoro, indipendentemente da tutto il resto.
In questo quadro, un ruolo di primo piano ha lo svilimento del ruolo del docente, sempre più depauperato nella sua dignità di formatore e valutatore dei processi cognitivi, umani e critici, e costretto, dalla cinghia di trasmissione del potere (leggi dirigenti scolastici), a incombenze burocratiche di quart’ordine e alla promozione di “progetti” finalizzati all’esaltazione dell’ “azienda-scuola” nella sua autonomia. Spesso necessita anche evitare lo straining dirigenziale: i più colpiti sono infatti coloro che cercano di innalzare la qualità dell’istruzione e il livello di coscienza dei futuri cittadini, disinteressandosi delle iniziative volte a gettare fumo negli occhi.
Per una strana sorta di paradosso finisce, quindi, per diventare plausibile ogni forma di richiesta delle famiglie, nella loro funzione di clienti dell’ “azienda-scuola”, fosse pure l’assoluta impunibilità dei propri figli o il completo disconoscimento delle loro carenze di preparazione.
A questo punto, se la compiacenza del dirigente non soddisfa, e se è vero che il cliente ha sempre ragione, diviene lecito anche agire di persona.
Gennaro Annoscia