Una stanza bianca. Un letto. Un trono. Forse a rotelle.
Un costume elegantissimo, ricostruzione perfetta di un abito nobiliare inglese di fine quindicesimo secolo. Ma la stanza non è quella di un castello tardo medievale, e nemmeno il letto: sembrano piuttosto gli interni disadorni e freddi di una stanza d’ospedale. Psichiatrico, forse.
Allora cosa ci fa, qui dentro, un costume da Riccardo III? Chi sono i tre uomini che si alternano in modo schizofrenico tra tutti i ruoli della storia, compresi quelli femminili, comprese le pause per assumere medicinali, andare al bagno o leggere cartelle cliniche?
Il problema è che Shakespeare e il suo Riccardo non ci bastano più: eppure è un testo gigantesco, finanche esagerato, con troppi personaggi, ma sublime, dalle prime indimenticabili parole (c’è qualcosa di più potente di «Ora l’inverno del nostro scontento si è mutato in gloriosa estate»?) alle ultime, che cancellano l’orrore, liberano dal sangue e dalla presenza angosciosa del male, nella sua incarnazione più pura e luciferina.
redazione