Teatro civile in Vallisa, domenica 5 novembre (ore 19), per «Le direzioni del racconto» della Compagnia Diaghilev. Di scena, per il cinquantenario del Sessantotto, «Il caso Braibanti», testo di Massimiliano Palmese che ripercorre la storia dell’artista-filosofo Aldo Braibanti, processato in piena contestazione per ‘plagio’ (con l’accusa morale di omosessualità) in uno dei processi più seguiti e dibattuti nell’Italia di fine anni Sessanta, finito con una condanna di nove anni di reclusione basata su un’improbabile imposizione delle proprie idee e personalità sul ventunenne Giovanni Sanfratello. Diretti da Giuseppe Marini, interpreti dello spettacolo sono Fabio Bussotti e Mauro Conte con musiche eseguite dal vivo dal sassofonista Mauro Verrone.
La denuncia contro il piacentino Braibanti, ex-partigiano torturato dai nazifascisti, venne depositata nell’ottobre del 1964 alla Procura della Repubblica di Roma «per aver assoggettato fisicamente e psichicamente» Sanfratello. In realtà il ragazzo, in fuga da una famiglia tradizionalista e bigotta, aveva deciso di seguire le sue inclinazioni ed era andato a vivere a Roma con Braibanti. Non riuscendo a separare la coppia, il padre di Giovanni denunciò l’artista-filosofo con l’accusa di plagio.
Il processo a Braibanti si aprì il 12 giugno 1968, mentre infiammava la contestazione e i giovani di tutto il mondo chiedevano a gran voce più ampie libertà. In molti denunciarono lo scandalo di un processo montato ad arte dalla destra più reazionaria del Paese in combutta con esponenti del clero e della «psichiatria di regime». Dalle colonne dei giornali in favore di Braibanti intervennero Pier Paolo Pasolini, Elsa Morante, Alberto Moravia, Umberto Eco, Marco Pannella, Cesare Musatti e Dacia Maraini. Ma i loro appelli caddero nel vuoto.
«Il processo Braibanti – dice Palmese – fu una vicenda medioevale. Nel ’68, mentre il mondo si trasformava in un luogo meno repressivo, in Italia bastò una “cricca” di avvocati, di psichiatri e di preti, per trasformare una storia d’amore in un “Romeo e Giulietta” omosessuale, in cui i padri per punire i figli non esitano a denunciarli per “plagio” o a sottoporli a coma insulinici ed elettrochoc. E, se ancora oggi nel nostro Paese le stesse cricche politiche, reazionarie e ipocritamente bigotte, si oppongono a una seria legge contro l’omofobia o alle unioni civili per i gay, vuol dire che “Il caso Braibanti” non è una pagina del passato ma storia presente che può deve, ancora, farci indignare».
Il testo dello scrittore e drammaturgo napoletano (finalista al Premio Strega 2006 con «L’amante proibita») è basato sugli atti del processo e su articoli di giornale. «Non ho voluto inventare perché mi sembrava si dovesse trovare solo il giusto tono, un equilibrio tra satira di costume e dramma psicologico, per tenere insieme le parole degli avvocati, così violente, insieme alle loro tesi, così ridicole», racconta Palmese, rimasto “divertito” dalla lettura degli interrogatori e delle arringhe e agghiacciato dalle dichiarazioni omofobiche dei cosiddetti «periti» e dalle cartelle firmate dagli «specialisti in malattie nervose» delle cliniche dove fu rinchiuso il giovane Giovanni Sanfratello.
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