Una vita ad intrecciare corde: “Mmìne la ròte Andò!”

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Ninuccio Conenna (u zecheleddère), Turi 1922-2011, figlio d’arte, dopo la morte di suo padre Giovanni, diverrà l’unico funaio operante a Turi. Ninuccio era una persona umile e molto generosa, ma allo stesso tempo schietta e di forte temperamento. Un grande lavoratore che dal nulla, con il proprio mestiere, si era fatto costruito il proprio benessere, sino a quando le forze sono andate esaurite.

 

Per ben raccontare e rappresentare questa importante figura professionale, ho colto l’occasione di scambiare alcune parole con sua figlia Carmela, docente in pensione, la quale, con altrettanta passione e competenza, mi ha raccontato per filo e per segno la professione di suo padre, esplicando tutte le fasi lavorative del cordaio. Racconto accorato il suo, che ha rispolverato antichi ricordi, e momenti di vita vissuta, rievocando belle emozioni, difficili da cancellare. Un’autentica testimonianza di questo straordinario e affascinante mestiere ormai perduto.
Come già scritto per ottenere la corda si utilizzavano diversi materiali, ma il ‘juncus acutus’, risultava il più economico e il più redditizio. La pianta vegetava in abbondanza nelle zone paludose e costiere della puglia.
Gli esperti cordai pugliesi, riconoscevano la pianta dalla sua inflorescenza, i cui fiori sono costituiti da un perigonio glumaceo di sei pezzi saldati alla base. I fusti delle piante di giunco, una volta lavorati, in parte si usavano come legacci per impagliare le sedie, mentre gli altri erano sottoposti alla torsione per ottenere cordame di varia tipologia.
Per la lavorazione della canapa ‘cannabis sativa’ (nel 1954 la pianta venne dichiarata tossica) la materia prima veniva quasi tutta importata dal nord Italia e da alcune zone del Napoletano. Le funi di canapa (i lazze) si producevano in particolar modo per l’utilizzo in agricoltura, specie per produrre le redini per i cavalli e muli, e venivano utilizzati anche per fissare i carichi sui carri agricoli “traini”.
I cordai meno abbienti, nei periodi di poco lavoro, nei mesi di gennaio, febbraio e marzo, raccoglievano lo scarto prodotto nella lavorazione dei fiscoli, e i vecchi fiscoli usati nei trappeti, e le “pastorelle” spezzate, corde di bassa qualità usate per le legature e per i lavori di rinforzo. Il materiale riciclato, veniva opportunamente sfilato uno ad uno, ripassato al ‘battitoio’, era pronto ad essere utilizzato per preparare nuove e speciali corde, utilizzate dai pescatori: “lanodde” e “calatòre”.
Le prime venivano usate per armare le reti da pesca, ed erano ottenute dalla ‘ritorcitura’ di tre capi, mentre i secondi venivano utilizzate per allestire i cosìdetti ‘conzère’. Queste particolari reti servivano per pescare in particolar modo il pesce bianco.
I Cordai durante la filatura delle corde, per non usurare i pantaloni, usavano indossare un lungo grembiule “u sinale”. Le loro dita erano sottoposte a continua frizione provocata dai giunchi, e nel loro continuo movimento di torsione, subivano abrasioni e piccole ferite. Per ovviare a questo inconveniente, i cordai usavano portare alcuni ditali di cuoio. Carmela Conenna racconta: “…Per reperire i giunchi da poter lavorare, mio padre Ninuccio, di buon mattino, con la sua bici, si recava in alcune zone paludose di Taranto o di Torrecanne (BR). Trovate le giuste piante di giunco, con la forza delle sue mani le sradicava uno alla volta e formava dei fasci. Opportunamente legati li accatastava sul portapacchi della sua bici tipo ‘graziella’, che a tutt’oggi gelosamente conservo, e armato di pazienza, con il suo prezioso carico, dopo molte ore ritornava in paese. Giunto a Turi, immergeva i giunchi in una grande vasca ricolma d’acqua, per almeno 48 ore, per l’importante fase della macerazione. Almeno due volte al giorno con l’aiuto di alcuni suoi giovani collaboratori, si portava al ‘pilone’ di un suo amico contadino, che abitava in via Sammichele, subito dopo il passaggio a livello, e girava i fasci, affinchè la macerazione fosse uniforme.
Dopo averli macerati e asciugati al sole, formava dei mazzetti ben allineati, e con l’utilizzo di un’ascia eliminava l’inflorescenza. Successivamente con un grosso martello di legno chiamato ‘mazzola’ o ‘u màgghie’, schiacciava i giunchi in maniera grossolana, e subito dopo li passava attraverso un attrezzo composto da due mazze verticali in ferro, distanti fra loro due centimetri, fissate alla base da un parallelepipedo di legno, ‘la sckòcche’. Quest’ultima fase di lavorazione serviva per appiattire i filamenti di giunco pronti ad essere trasformati in corda.
Per quanto riguarda i filamenti di fibra di cocco, mio padre li comprava sotto forma di grosse matasse da alcuni grossisti di Bitonto e Modugno. Al momento della loro lavorazione, disponeva la matassa in terra per avere un filamento, e lo sottoponeva alla torsione per ottenere una prima cordicella. Successivamente con tre o quattro capi, li torceva, per avere una corda unica. Con questo tipo di corda, grazie all’utilizzo di appositi telai in ferro, di forma circolare, tesseva i fiscoli, e sapientemente li rifiniva rinforzandoli con le ‘pastorelle’, cordicella che cuciva con specifici punteruoli di legno.
Per la lavorazione dei filamenti di canapa e di lana di capra, prima di filarli, veniva utilizzata la tecnica della ‘cardatura’, ossia pettinatura, e una volta cardata, formava dei fasci di lunghe fibre che sistemava alla propria cintola dei pantaloni per avere il materiale pronto per filare.
La cordatura o intrecciatura, iniziava dalla grande ruota, simbolo ancestrale del cordaio, questa era poggiata su di un supporto di legno “u vanghe” costituito da una base e quattro montanti anch’essi in legno. I montanti sorreggevano la ruota in ferro, la quale mediante una fune metteva in moto alcune pulegge in legno “fesjidde”. Queste avevano un uncino girevole ed erano montate su una struttura a croce in legno. La ruota veniva fatta girare grazie ad una grande impugnatura in ferro, azionata il più delle volte da un giovane ragazzo. “Uagliò mìne la ròte” (ragazzo butta la ruota), – questo era il comando che mio padre in modo energico gridava.
Legato il filamento all’uncino girevole, sottoponeva la fibra alla torsione, e camminando lentamente all’indietro, filava la corda per circa 20 metri, per filare un capo di corda “na sciùte”, impiegava circa dieci minuti. Percorsi circa dieci metri, il filato veniva poggiato su un apposito cavalletto con i pioli “u trestjiedde”, e raggiunta la distanza di circa venti metri, inchiodava a terra il capo della corda, e lo bloccava sotto una grande pietra. Dopo tale operazione ritornava alla carica filando un’altra corda. Al termine della filatura di minimo tre corde, queste le univa ad un altro grande uncino girevole, e con una girata veloce della ruota, intrecciava le tre cordicelle, ottenendo un’unica e resistente corda. Più forte era la torsione più aumentava la resistenza della corda stessa. Quando si lavorava con un numero superiore a tre capi, si usava la “pigna”, un pezzo di legno a forma conica con quattro scanalature, entro cui scorrevano i vari capi posti alla ritorcitura.
La tessitura dei fiscoli avveniva nella nostra abitazione con il paziente aiuto di mia madre Palma, oppure venivano prodotti all’interno del trappeto. Tra i tanti trappeti turesi, ricordo quello di Tateo, posto vicino al palazzo marchesale. In tale circostanza il materiale e gli attrezzi venivano riforniti direttamente dal proprietario del trappeto, il quale corrispondeva un compenso della giornata lavorativa.
Gli storici collaboratori di mio padre, che io ricorda, sono stati i turesi Mario Loisi detto la “checchevèsce” (la civetta), e i fratelli Minguccio, Pierino e Antonio S. Nei suoi ultimi anni di lavoro di cordaro, ricordo l’assidua e preziosa collaborazione di Paolo Mirizio classe 1966, oggi bravo piastrellista.”
Il lavoro del cordaro lo conosco da quando avevo la tenera età di 11 anni – racconta Paolo – e Ninuccio per circa 9-10 ore di lavoro mi dava 2000 lire. Talvolta, mi arrabbiavo e contrariato smettevo di girare la ruota e andavo via da largo pozzi, o dal mulino di Zaccheo, dove producevamo le corde. Poi, lui veniva subito a bussare a casa mia e con garbo mi diceva che, se avessi ripreso, mi aspettava “na bèlla carta ròsse” (banconota da 10.000 lire).
Carmela continua a raccontare: “…mio padre le sue corde le vendeva durante i giorni della fiera di Santa Lucia il 24 aprile e durante la fiera di San Bartolomeo il 25 Agosto. Il costo medio delle corde, variava da 15-20 lire al metro. Il prezzo oscillava in base alla sezione della fune. I fiscoli venivano venduti in balle da venti pezzi. La postazione di vendita assegnata a mio padre, era in via XX settembre, nei pressi della chiesa di San Rocco, vicino l’abitazione della maestra Ippolita, (attualmente angolo Gargano). L’incasso della giornata di fiera veniva custodito in una cassetta di legno, posta sotto l’attenta vigilanza di mia madre, Palma Milano, che oggi ha la veneranda età di 95 anni. Ricordo un vero record di incasso che mio padre registrò nel lontano 1955, al termine della fiera di Santa Lucia, vendette tutte le corde che aveva prodotto, incassando la straordinaria cifra di 16.000 lire. Mio padre tornò a casa soddisfatto e pieno di felicità dell’importante cifra incassata. Ricordo con tanta emozione che quel giorno nella mia famiglia ci fu una grande festa. Grazie per tutto papà!”
Fissare le immagini e le testimonianze di quelle forme di vita e di lavoro, raccogliere voci significative e documentare l’antichità e le diverse espressioni linguistiche, significa fare opera di Storia. Significa tutelare e salvaguardare la nostra cultura, fatta soprattutto di tradizioni, riti, folklore, artigianato, antichi mestieri, pratiche agricole, espressioni orali particolari, e tanto altro ancora.
Ed è proprio la condivisione di questo patrimonio culturale immateriale che ci garantirà nel tempo il senso della continuità e d’indelebile identità.

Stefano de Carolis

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